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        CARPE DULCE: PASTICCERIA ROMANA

I dolci sembra che fossero per gli antichi romani un piacere da non perdere, ne preparavano di molto gustosi e simili ad alcuni dolci che mangiamo ai nostri giorni.

Come dolci i Romani amavano la frutta sia essa fresca o dolce andava bene comunque; quella più consumata erano l’uva, mele, pere e fichi; pensate che ai tempi della Roma Imperiale si contavano 38 varietà diverse di pere! Meno comuni nei banchetti erano le mele cotogne ma che si diffusero maggiormente nel I secolo a.C. insieme alle pesche, alle albicocche e alle ciliegie. I dolci veri e propri comparivano poche volte nelle tavole romani e per lo più durante i banchetti per festeggiamenti importanti; ma nella Roma Imperiale i dolci la facevano da padrone! Le botteghe di pasticceri si diffusero sempre di più, facevano dolci di tutti i tipi e di tutte le fogge, usavano tantissimo miele, lo zucchero all’epoca non era ancora conosciuto. C’erano anche le botteghe dei fabbricanti di biscotti e botteghe ognuna delle quali specializzate in un tipo particolare di dolce. Quello più semplice era il  libum, ossia un tipo di pane dolcissimo fatto con latte e miele; c’era il globus che era come i nostri bomboloni;  il luncunculus, tipo i bignè. Molti erano anche i dolci fatti con formaggio e miele, ma le vere specialità della Roma antica erano i datteri farciti con le noci. 

Semplice quanto gustoso: il libum

La parola libum viene dal verbo latino libare, che significa fare una libagione, e questa preparazione era una focaccia che veniva offerta agli dei specialmente per gli anniversari. 
Catone nel suo libro: “De Agricoltura” scrive: "Farai così il libum. Sciogli bene in un mortaio due libbre di formaggio. Quando lo avrai reso del tutto liscio impasta bene...". 
La ricetta che vi proponiamo, sia per la semplicità della sua preparazione, che per la presenza del nobile alloro, era ritenuta una delle preferite da Catone, il quale ne consigliava la cottura in un'unica pagnotta. Oggi, è molto più pratico fare tante piccole focaccine. 

Ingredienti

Ricotta - farina - uova - sale - pepe - foglie alloro

Preparazione

Prendete della ricotta di pecora fresca, fatene una crema e aggiungetevi farina, uovo, sale e pepe. 
Impastare il tutto e farne delle palline, che adagerete su foglie d’alloro da passare in forno affinché non saranno ben dorate. 

                                     IL MIELE

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Sebbene Plinio nei suoi resoconti abbia descritto la canna da zucchero, questa era considerata un prodotto medicinale esotico: Anche l’ Arabia produce lo zucchero, ma quello dell’ India è più pregiato. Si tratta di un miele che si raccoglie sulle canne, bianco come la gomma, fragile sotto i denti, delle dimensioni, al massimo, di una nocciola, impiegato solo in medicina. (N. H.,XII, 17). Grande importanza rivestiva invece il miele, il cui uso era pressocchè costante in gran parte delle ricette. Fonte:www.beniculturali.it

Elemento indispensabile nella vita dei Romani era il miele e l’apicoltore romano aveva un ruolo essenziale nella cucina latina.
Il miele era un prodotto molto diffuso in tutta la penisola: da nord a sud e nelle isole, numerose varietà rivaleggiavano in sapore e aroma, il che non impediva però ai Romani di importarlo anche dalla Grecia . Due tipi di miele solleticavano maggiormente il gusto dei Romani: quello di prima qualità (mei optimum) e quello di seconda qualità (mei secundum). Capitava spesso che i cuochi romani mischiassero le due qualità tra loro e Apicio ci da una ricetta per migliorare il miele cattivo, aggiungendo a una misura di miele di seconda qualità due misure di quello «ottimo».

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Ecco, di seguito l’ antica ricetta romana del vino aromatizzato al miele:
“Siano versati in un vaso di bronzo un quarto di vino e due cucchiai di miele, in modo che, mentre il miele bolle, il vino diminuisca di volume. Scaldalo a fuoco lento; gira il tutto finchè prenderà il bollore; quando comincerà a salire, trattienilo versando altro vino.Una volta freddo fallo scaldare di nuovo. Ripeti per altre due volte. Il giorno dopo lo schiumerai. Aggiungi allora 120 gr. di pepe, poco pistacchio, cannella e zafferano, cinque ossi arrostiti di datteri; trita cinque datteri che dal giorno precedente avrai posto nel vino per farli ammorbidire. Fatto ciò versa due litri circa di vino giovane”.

Fonte: blog.giallozafferano.it

                                      Il torrone dei Sanniti

 

 

Tra le molte leggende che circolano su uno dei dolci più «ancestrali» del mediterraneo, una è particolarmente vivida. Si tratta di un racconto orale, che non è certo da prendere come verità storica. Tuttavia, come ogni favola contiene un po’ di verità, così questa leggenda rivela l’antichissima origine del nostro dolce preferito, nonché la sua diffusione tra le popolazioni che si affacciavano sul «Mare Nostrum».

L’episodio a cui ci riferiamo risale alla seconda guerra sannitica, che gli storici collocano fra il 326 – 304 a.C.

In questi anni, la giovane Repubblica Romana cominciava la sua lotta per l’egemonia nell’Italia centrale scontrandosi con una delle più agguerrite popolazioni confinanti: i Sanniti.

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Sebbene Roma uscì vincitrice dalla guerra, nessuno storico dimenticò una delle più grandi umiliazioni a cui l’Urbe fu sottoposta: la sconfitta delle Forche Caudine. Nel 321 a.C., come racconta Tito Livio nel suo Ab Urbe condita, le legioni romane, ingannate da spie sannite travestite da pastori, si indirizzarono una stretta gola montuosa con l’obbiettivo di soccorrere dai Sanniti una città alleata.

Qui, presso le strettoie di Caudio, furono prese facilmente in trappola dai nemici che, tuttavia, non uccisero i legionari, ma li umiliarono con la subjugatio, il passaggio sotto il giogo. Ciascun soldato fu costretto ad inchinarsi di fronte all’esercito sannita in trionfo.

La leggenda vuole che l’umiliazione fosse stata così cocente da bloccare lo stomaco ai Romani, rischiando di farli morire d’inedia. Allora, i Sanniti, che non li volevano morti ma testimoni della loro vittoria, prepararono un dolce tradizionale tanto ghiotto da far tornare loro l’appetito e, al contempo, la consolazione.

I romani chiamarono il dolce cupedia, dal verbo cupio, che poteva significare tanto «ghiottoneria» quanto «cosa desiderata». Nome che, nel corso dei secoli, passò ad indicare i dolci precursori del nostro torrone: quelle preparazioni a base di miele, uova e frutta tostata che, chiuse da un’ostia, una cialda di pane o biscotto, sono reperibili in moltissimi ricettari della tradizione mediterranea.

www.tartufidolci.it

 Il pangiallo

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Il pangiallo è un antico dolce romano preparato per le festività natalizie. Secondo alcune leggende veniva cucinato in occasione del solstizio d’inverno per essere poi mangiato o regalato, come segno di buon auspicio, il 25 dicembre, una data che nell’antica Roma corrispondeva al giorno del “dies natalis solis invicti” cioè il “giorno del Natale del sole invincibile”. Si trattava di una festività istituita dall’imperatore Aureliano per celebrare la rinascita del sole, morto nel solstizio d’inverno.

Il pangiallo infatti è un dolce che nella forma e nel colore richiama appunto il sole: ha la conformazione di una pagnotta e la sua superficie è ricoperta da una glassa di colore giallo acceso. Per quanto riguarda il suo interno, la ricetta tradizionale prevede un impasto di frutta secca, miele, cedro e canditi. Esiste però anche un’altra versione “più economica” inventata dalle massaie romane che, non potendo permettersi le mandorle e le nocciole, utilizzavano le prugne e le albicocche essiccate.

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La tradizionale ricetta del pangiallo è citata anche nel “De re coquinaria” del famoso cuoco Apicio, vissuto circa duemila anni fa. Il noto chef, nel suo capitolo dedicato ai dolci, consigliava per una migliore riuscita del pangiallo di: mescolare nel miele pepato anche del vino puro, dell’uva passita, della ruta e di aggiungere a questi ingredienti i pinoli, le noci della città di Avella e la farina d’orzo.

Oltre alla ricetta tradizionale esistono anche molte varianti che vedono la presenza del cioccolato fondente o della confettura di fichi. Per quanto riguarda la sua particolarità, ovvero la superficie color oro: alcuni la preparano mettendo nella glassa lo zafferano, altri utilizzano l’uovo.

Nel corso dei decenni il pangiallo ha perso il suo primato nella lista dei dolci romani natalizi, ma la produzione di questo antico dolce continua a persistere nella zona dei Castelli Romani e in molte famiglie più tradizionali che ancora oggi lo preparano in casa per poi regalarlo ad amici e parenti come simbolo di rinascita.

(Fonte:http://www.caligolapalermo.it)

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