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CARO LATINA

           Venite a gustare quest'antica specialità

La carne rappresentava un elemento di primaria importanza nella piramide alimentare romana; essa veniva importata, essenzialmente, dalle regioni meridionali come Lucania, Sannio, Campania, sino alla metà del V sec. d.C..

 

Molto consumata era la carne di maiale, del quale si mangiava tutto e le cui carni offrivano quasi cinquanta differenti sapori, mentre il suo grasso talvolta era impiegato come rimedio contro i malanni o contro il malocchio. Le carni migliori erano, però, considerate quelle di capretto e  d’agnello per la loro morbidezza, mentre la carne meno pregiata era quella di montone e capra. Molto apprezzata era la carne dei volatili, sia quelli allevati nei cortili e nelle voliere sia la selvaggina cacciata. Oltre a tordi e piccioni, i romani allevano: le colombe, i gallinacei in generale, tra cui anche galli da combattimento, le faraone (galline numide), le oche e le anatre ; al beccafico è riservato un posto particolare, perché si tratta di una specie di passero dalla carne molto delicata e, per questo motivo, assai ricercato tanto più che è il solo uccello che si può mangiare intero. I più ricercati erano i piatti a base di fagiano e pavone. Il pavone era quasi esclusivo appannaggio degli imperatori e Svetonio riferisce che Tiberio mise a morte un pretoriano per aver rubato un pavone da un giardino.. I più ricchi amavano gustare piatti a base di ghiro al cui allevamento era riservata una cura particolare (gliraria), e fenicottero di cui era molto ricercata la lingua. In tutti i periodi la carne più ricercata e pregiata, oltre che costosa, è stata quella di cinghiale. Molto apprezzata era la carne di lepre, allevata nei leporaria, venduta quattro volte più cara del coniglio, importato dalla Spagna e presto riservato ad una consumazione solamente plebea. Per quanto riguarda la carne di pollo, non era molto apprezzata e veniva consumata principalmente dai poveri. Nell’antica Roma si mangiava anche l’asino selvatico (onager) e la selvaggina come il cervo, il capriolo e il daino. Il bue inizialmente non fu utilizzato per la gastronomia, poiché ritenuto sacro, bensì nel lavoro dei campi. Successivamente, però, la sua carne venne servita persino durante i banchetti in onore degli dei.

COME SI CONSERVAVA

 

La deperibilità di quasi tutte le derrate alimentari e la contrapposta necessità di conservare a lungo sia i prodotti stagionali, sia quelli di origine animale, per avere a disposizione delle scorte da consumare a poco a poco, richiesero nell'antichità, e fino a tempi relativamente recenti, l'utilizzo di tecniche diverse.

La carne nella dieta dei Romani se non consumata immediatamente, veniva sottoposta a particolari trattamenti .

La sua conservazione, per la quale era indispensabile il ricorso alla salatura, un procedimento costoso e dai risultati non sempre eccellenti poiché la consumazione della carne così trattata, che diventava durissima, poteva avvenire soltanto dopo una lunga bollitura prima nel latte poi nell'acqua. La carne veniva quindi conservata al buio in una dispensa ben aerata e appositamente destinata allo scopo, il carnarium, dove i pezzi essiccati e affumicati venivano semplicemente appesi, mentre quelli salati venivano sistemati entro giare di terracotta.

Un altro metodo di conservazione della carne consisteva nella bollitura. Oltre a ottenere una buon brodo, la carne così cucinata durava per più di una settimana. Ma essendo passata, di giorno in giorno, di brodo in brodo, doveva essere sempre rinvigorita di sale e di aromi.  Grazie a Catone abbiamo una dettagliata descrizione del procedimento per salare e conservare il prosciutto. Questa pratica era molto diffusa presso le popolazioni galliche che avevano in questo settore un vero e proprio primato. Il prosciutto veniva posto in una giara, tra due strati di sale romano macinato, "sal romaniensis molitus". Dopo 17 giorni di salatura veniva ripulito, quindi cosparso di olio e sospeso per due giorni al fumo del camino. Poi era nuovamente ricoperto di olio, con l’aggiunta di aceto. Così, in generale, venivano conservati i pezzi di carne.

Una possibile alternativa alla salatura consisteva nel riporre la carne in vasi di terracotta ricolmi di mostarda di senape o di miele.

COME SI INSAPORIVA E CUCINAVA

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Una volta che si doveva procedere, a distanza di tempo, al suo consumo era necessario reidratarla bollendola due o tre volte nel latte e nell’acqua. Per ridarle sapore occorrevano molto sale e altrettante spezie. Queste ultime, del resto, erano utili anche a mascherare il cattivo sapore delle carni andate a male. E non capitava di rado. Soprattutto la cacciagione, che si rovinava facilmente, era inondata delle più svariate spezie. La necessità di insaporire e ridare gusto agli alimenti bolliti e conservati determinò anche il grande utilizzo di salse, altro termine etimologicamente legato alla parola latina “sal”.

LA CARNE NEI SACRIFICI

Il sacrificio di animale richiedeva una preparazione particolare: la vittima era lavata e addobbata con nastri e fiori ed era scelta sempre con cura. Doveva avere diverse caratteristiche anche a seconda della divinità a cui  veniva sacrificata: vittime maschie per gli Dei e femmine per le Dee, di colore bianco per gli Dei celesti e neri per gli inferi, le rosse a Volcano e a Robigo. Le scrofe incinte a Cerere e Tellus per i riti espiatori, e i maiali nei sacrifici funebri.  Secondo il Rito Romano la vittima era consacrata con la mola salsa (farina di frumento arrostita con sale originalmente fatto dalle Vestali e connesso così con il fuoco di Vesta) e con il vino. Gli animali più grandi, come i buoi, venivano prima storditi, mentre i più piccoli direttamente sgozzati. Compiuta l’uccisione il corpo veniva girato e il ventre aperto, e a questo punto il Sacrificer con gli esperti Aruspici consultavano le interiora per capire se la vittima fosse stata accettata o meno dalla Divinità. Gli organi prefissi a ciò erano principalmente il fegato che, come dicevano gli Antichi, custodiva la vita, poi polmoni e cuore. Se gli organi verificati non presentavano alcuna malformazione significava che la vittima era stata accettata e si poteva proseguire, altrimenti bisognava ricominciare con una nuova vittima. Le interiora  erano destinate alla Divinità e offerte sul fuoco, il resto era riservato agli umani che consumavano le carni nel banchetto (epulum) dopo il sacrificio a cui gli Dei stessi, tramite le statue, prendevano parte.

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